Un’economia circolare anche per la laguna deltizia

20 maggio 2021


UniFe alla ricerca di tecnologie a basso impatto ambientale per i rifiuti marittimi

Proteggere gli ambienti marini attraverso l’aiuto degli operatori della pesca. E’ questo il fondamento principale del progetto “Ripristino di ambienti marini incrementandone la biodiversità con la partecipazione di pescatori”, divulgato da Coldiretti Rovigo Impresa Pesca e realizzato dall’Università di Ferrara, con il coinvolgimento di due cooperative di mitilicoltori, di Scardovari e Pila e i pescherecci di Chioggia. Il progetto rientra nelle iniziative finanziate dalla Regione Veneto attraverso il fondo europeo Feamp 2014-2020 per lo sviluppo eco-sostenibile della pesca e acquacoltura

Un progetto attivato nel 2018 e portato avanti nel corso degli anni successivi, che si sta ora avviando verso la conclusione, il tutto finalizzato a trasmettere una maggiore conoscenza agli operatori, aumentando la consapevolezza dell’importanza di un ambiente sano e salubre per la riproduzione dei prodotti del mare riprodursi in un in modo da aumentarne il valore.

Le azioni sul campo hanno coinvolto i sub di Essetre di Vigonza, due cooperative di mitilicoltori polesane e i pescatori di Chioggia, che hanno sondato alcuni impianti di mitilicoltura in mare per pulire ciò che i corpi morti degli impianti di cozze ancorano. L’università di Ferrarasi è occupata del monitoraggio quali-quantitativo, coordinato da Michele Mistri professore ordinario di ecologia presso l’Università di Ferrara, coordinatore del corso di laurea in tecnologia agraria e acquacoltura del delta e membro del comitato scientifico del Laboratorio Terra&AcquaTech del Tecnopolo estense.

“Purtroppo è stata recuperata una quantità estremamente rilevante di materiali: 3000 kg nella zona di Scardovari, 2900 kg nella zona di Pila e circa 3600 kg nella zona dell’Alto Adriatico. La tipologia di rifiuto è distribuita: il grosso è prodotto dalle attività di pesca e mitilicoltura, il resto è veicolato dalle acque continentali. Questo perché la zona riceve tutte le acque dei fiumi Adige e Po; basti pensare che il 36% è costituito da legname. Nei fondali, invece, è stato recuperato materiale proveniente dalle retine usate negli impianti di cozze, portate principalmente dalle mareggiate.

L’università di Ferrara ha analizzato in laboratorio i campioni, in modo da definirne la struttura, attraverso una specifica procedura con l’impiego di un raggio laser che emette uno spettro in grado di identificare l’origine delle molecole. analizzate. “I polimeri rilevati sono per il 72% polipropilene, l’8% poliestere, il 10% polietilene, ed il restante altri polimeri. Polimeri provenienti dai più disparati oggetti comuni, tra cui anche le mascherine. Dopo aver visto la composizione, dei materiali raccolti, abbiamo osservato come circa 5 tonnellate siano riconducibili alle calze dei mitili, 1,5 tonnellate legate alle attività di pesca, 1 tonnellata agli attrezzi da pesca e oltre 1 tonnellata al legname”.

Come detto la causa di questa consistente presenza di rifiuti è riconducibile a due motivi principali: il mare Adriatico ha una circolazione di tipo ciclonico e di conseguenza tutto ciò che viene trasportato dalle acque continentali finisce in questa zona. Il secondo fattore è, legato al clima con la sempre maggiore frequenza di mareggiate, che causano gravi danni alle strutture presenti nelle superfici adibite a mitilicoltura offshore, staccando parti di impianti e disperdendole in mare.

La soluzione a questa problematica secondo Mistri sta nel passaggio da un’economia lineare ad una circolare anche per le attività ittiche. “Oltre il 50% di rifiuto recuperato è costituito da un unico polimero (polipropilene).  Stiamo già lavorando  per trovare una tecnologia semplice e a basso impatto ambientale per ripulire questi materiali di scarto, prevalentemente da alghe e gusci, in modo da consentirne il riutilizzo nell’ottica di un’economia circolare”.